domenica 26 agosto 2012

MADAGASCAR 3 riscoprire la passione che c’è in noi e lasciarla esplodere come un fuoco d’artificio.

Qualcuno potrebbe chiedersi cosa c’entra il ritornello di “Firework” con Madagascar 3. La risposta è duplice. Non solo la canzone diKaty Perry fa da colonna sonora al film – insieme a molte altre hit pop del momento – ma quello che ci insegna il capitolo numero tre del franchise DreamWorks, in un certo senso, è proprio racchiuso in quelle parole: riscoprire la passione che c’è in noi e lasciarla esplodere come un fuoco d’artificio.
Non un cartoon sorprendente – la formula è la stessa: ironia, divertimento e una buona dose di ritmo – ma un terzo episodio che riscatta il secondo (decisemente meno convincente del primo), mette in campo divertenti new entry (tanto che chi non nutre una pregressa affezione per AlexMartyMelman e Gloria corre il rischio di trovarli più insipidi dei nuovi arrivati) e ritrova la simpatia dei protagonisti. A trascinare ed entusiasmare è ancora la carica ironica dei quattro protagonisti (e delle loro spalle comiche), declinata in una raffica di gag che, se possibile, acquistano sfumature ancor più surreali, grazie al mix comico di intelligenza animale e stupidità umana (o viceversa).

Ultimo giorno di caldo, poi la pioggia di Beatrice


Ultimo giorno di caldo, poi la pioggia di Beatricehttp://meteo.lastampa.it/previsioni-regioni-italia/Piemonte/1

"un piccolo passo per un uomo, un grande balzo per l'umanità", era il 20 luglio 1969

Washington - (Adnkronos/Ign) - All'età di82 anni è morto l'astronauta americano che il 20 luglio 1969 fece il primo passo sulla Luna.  Storica la sua frase:''Un piccolo passo per un uomo, un grande balzo per l'umanità". Fatali per il comandante della missione Apollo 11 le ''complicazioni post operatorie'' dopo un intervento di by-pass coronarico. Piero Angela: uomo schivo ed eccezionaleTito Stagno, commentatore dello sbarco insieme all'inviato Ruggero Orlando: "Se ne va una parte della mia vita"

sabato 25 agosto 2012

TASSARE LE BIBITE SARA' GIUSTO


Torna l’ipotesi di tassare le bitite gasate: ci finanzieremo il piano per la non autosufficienza

Tra le ipotesi allo studio per rifinanziare l’attuazione del piano per la non autosufficienza, che rientra tra le azioni in programma per il ministero della Salute delineate dal Cdm di ieri, si sta pensando anche a una tassa su bibite gassate e con una determinata percentuale di zuccheri per tre anni, che potrebbe portare circa 250 milioni l’anno.

Questa ipotesi, di una tassa sulle bibite, non è nuova, in passato era stata proposta anche come monito per corretti stili di vita. Se passasse potrebbe essere inserita nel cosiddetto ‘decretone sanità’, che il ministro Renato Balduzzi dovrebbe portare al prossimo Consiglio dei Ministri. Secondo quanto si apprende, della questione si è parlato ieri in linea generale in un incontro tra il ministro e gli assessori regionali alla Salute, ma ancora non c’è una decisione definitiva. “Ora il Governo Monti vuol tassare pure le aranciate dei ragazzini. Torna l’ipotesi di una tassa supplementare sulle bibite che colpirebbe ulteriormente consumatori già esausti. E’ una ipotesi sbagliata e non riteniamo accettabile questo stillicidio fiscale proprio mentre si fanno troppi annunci di riduzione dei prelievi che poi palazzo Chigi regolarmente smentisce”. Ad affermarlo in una nota è il presidente dei senatori del Pdl, Maurizio Gasparri.


venerdì 24 agosto 2012

NUTELLA E LA SUA STORIA


Fu nel retrobottega di una pasticceria di'Alba, fondata nel 1944 da Pietro Ferrero, che nacque l'antesignana di quella che sarà la novità rivoluzionaria degli anni della ricostruzione del nostro paese, nell'immediato dopoguerra, e una delle specialità dolciarie più conosciute al mondo: la Nutella.
All'origine del prodotto troviamo la passione e l'aspirazione del signor Ferrero di offrire al più ampio numero poddibile di consumatori un prodotto dolciario nutriente e a basso costo e che potesse così sostituire il più prestigioso Cioccolato, allora riservato esclusivamente alle classi più abbienti a causa del prezzo elevato.
Questo prodotto venne sapientemente creato e fu chiamato Giandujot.
In pochissimo tempo conquistò il mercato locale, proprio grazie al prezzo estremamente competitivo rispetto al cioccolato tradizionale.
Il Giandujot fece innamorare immediatamente i bambini e le mamme, dato che finalmente avevano a disposizione un prodotto alternativo da mangiare a merenda e colazione con il pane, tuttavia aveva un inconveniente, quello di essere ancora difficilmente spalmabile. Per questo motivo si cercò di modificare la ricetta affinchè si potesse rendere il Giandujot piùspalmabile.
Nel 1949 la ricerca rivelò i risultati sperati e si ottenne una crema al cacao e nocciola che prese il nome di Supercrema Giandujot.
In quello stesso anno, il fratello fondatore Giovanni, prese un campione di prodotto e lo inviò alla Prefettura di Roma con lo scopo di ottenere il riconoscimento di qualità.
La nuova versione del prodotto ottenne subito un successo che andò ben oltre le aspettative, tanto che un giorno il signor Giovanni Ferrero, allora responsabile delle vendite, recatosi a Milano con il furgone per incontrare un grossista, si trovò circondato da una folla di persone che volevano acquistare direttamente dal lui la Supercrema.

Questo episodio ebbe immediate ripercussioni sull'organizzazione distributiva del prodotto. Si decise così di sviluppare un rapporto di vendita diretto con i dettaglianti contribuendo così alla rapida ascesa del livello di notorietà e di apprezzamento del prodotto in Italia.
L'evoluzione della Supercrema che, da alimento voluttuario, divenne parte integrante dell'alimentazione quotidiana, determinò svariate modifiche non solo a livello di confezionamento, ma anche nell'orientamento del messaggio pubblicitario che venne indirizzato direttamente alle mamme, considerate le principali responsabili delle scelte nutrizionali e di acquisto.
Tuttavia, la vera e propria svolta nel processo di espansione del prodotto, si verificò nel1964, anno in cui la denominazione Supercrema Giandujot venne abbandonata a favore di un nome ed un marchio molto più incisivi, comprendibile da tutti, anche all'estero.
Michele Ferrero, figlio del fondatore della società, intuì ben presto le potenzialità di internazionalizzazione del prodotto, con riferimento particolare ai paesi anglosassoni e tedeschi, caratterizzati da elevati consumi di cioccolato e prodotti derivati.
Si richiedeva quindi un termine capace di sintetizzare l'identità della Supercrema, facilmente comprensibile e pronunciabile nelle diverse lingue.
Si pensò così alla materia prima, la nocciola, tradotta con il termine inglese Nut, alla quale venne agganciata la desinenza ella che evocava attributi positivi oltre che essere pronunciabile a qualsiasi latitudine.
Nacque così il marchio Nutella che oggi è conosciuto in molti paesi del mondo come uno dei prodoti rappresentativi dell'Italia, entrando di diritto a far parte della schiera di prodotti mito, che tagliano trasversalmente più generazioni.


BARRY WHITE UN ARTISTA DELLA SEDUZIONE



 L'infanzia Nato il 12 Settembre 1944 a Galveston, in Texas, con il nome di Barry Eugene Carter, era il maggiore di due fratelli. La sua nascita a Galveston fu dovuta interamente alla madre che, recatasi in visita da alcuni parenti, decise di prolungare il suo soggiorno in quel luogo. Una volta tornato in California, egli trascorse la sua infanzia a Watts, una delle zone a più alta densità criminale di South Central Los Angeles, assieme al fratello Darryl, di 13 mesi più giovane. Darryl rimarrà poi ucciso in una lotta tra bande rivali il 5 Dicembre 1983. Questo avvenimento devasterà Barry che più tardi avrà modo di osservare: “Credetemi, la vita vale molto poco in quel mondo. È pazzesco, ma morì solo per due dollari.” I due bambini vennero cresciuti dalla madre, l'attrice Sadie Marie Carter, apparsa nel film del 1931 "Trader Horn". Lei e il loro padre Melvin A. White non si sposarono né vissero mai insieme. Barry ricordava a tal proposito: "Quando iniziai la scuola, mio padre vide il mio certificato di nascita e notò che il cognome scritto era quello di mia madre. Beh, non fece altro che cancellare “Carter”, scrivendo il suo, “White”." Crebbe ascoltando la collezione di musica classica di sua madre, e cominciò a suonare il pianoforte tentando di emulare i grandi maestri. Il suo debutto musicale avvenne in tenera età, a 11 anni, nel fortunato singolo di Jesse Belvin Goodnight My Love, in cui suonò il pianoforte. Più tardi la sua voce inconfondibile si manifestò per la prima volta: “Cambiò quando avevo 14 anni. Mi svegliai e parlai a mia madre e il mio torace cominciò a vibrare. Fu incredibile, era terrorizzata!” [2]

L’adolescenza in una gang [modifica]

Convinto che la musica sarebbe stata la sua vita, Barry lasciò la scuola all’età di 15 anni, ma insieme al fratello venne coinvolto nella criminalità e nell’attività delle gang. Ben presto si mise nei guai con la legge e dovette scontare sette mesi in un carcere minorile per aver rubato pneumatici da alcune Cadillac per un valore di 30000 dollari. Il lato disumanizzante di questa esperienza lo colpì profondamente: "Mentre ero in prigione, dovetti fare i conti con i miei errori e decisi che mai più in vita mia avrei consegnato la mia libertà nelle mani di qualcun altro.” [2]

Gli esordi della carriera musicale [modifica]

Dopo il suo rilascio dalla prigione, abbandonò la vita della gang e iniziò la propria carriera musicale agli inizi degli anni ‘60 come membro di diversi gruppi. Quando alcuni suoi compagni di scuola fondarono il gruppo R&B The Upfronts nel 1960, cantò come basso (anche se affermerà in seguito di non aver mai desiderato diventare un cantante), e scrisse diversi brani. Subito dopo essersi esibito in numerosi club di Los Angeles con gli Upfronts, cantò e registrò con altri gruppi come gli Atlantics e i Five Du-Tones. Ormai incantato dalla magia dello studio di registrazione, Barry imparò il mestiere di engineer, produttore e musicista a tutto tondo, e fu presto in grado di suonare ogni strumento presentatogli, con l'eccezione di archi e fiati. Il suo primo assaggio di successo arrivò nel 1963 grazie al suo coinvolgimento con Bob & Earl nella canzone Harlem Shuffle. In Tale occasione avvenne il suo incontro con l’arrangiatore Gene Page. In questo periodo Barry era sposato con il suo amore di vecchia data, desideroso di guadagnarsi da vivere per sostenere i suoi quattro figli. Il matrimonio non era però destinato a durare e si concluse con un divorzio nel 1965 (quando Barry aveva 21 anni), dopo una storia d'amore di sei anni. Intorno allo stesso periodo, cominciò a collaborare con le etichette Mustang e Bronco e produsse vari pezzi tra cui quattro singoli per Viola Wills e tre singoli per Felice Taylor nel 1966/67. Viola non raggiunse la vetta delle classifiche fino al 1979 (con "Gonna Get Along Without You Now"), ma Barry riuscì a portare Felice nelle classifiche americane Billboard con It May Be Winter Outside (grande successo che verrà poi ripreso dalle Love Unlimited) e nelle classifiche inglesi con I Feel Love Comin 'On, entrambi nel 1967.

Gli anni ’70 come produttore e l’incontro con le Love Unlimited [modifica]

Nel 1968, durante una sessione di registrazione per la Motown con Gene Page, Barry incontrò tre coriste e, trovando che fossero perfette, propose loro di lavorare assieme. Le cantanti erano Glodean James, sua sorella Linda, e la cugina Diane Taylor: le Love Unlimited, un gruppo nato come risposta al trio femminile delle Supremes. Nel 1969 iniziarono a lavorare e dopo oltre due anni di prove nel 1971 avvenne il loro incontro con Russ Regan, capo della UNI Records. L’album, From A Girl's Point of View We Give to You... Love Unlimited del 1972 fu un grande successo e vendette più di un milione di copie. Il gruppo crebbe in fama nella decade successiva e White sposò la prima voce, Glodean. Fu lavorando ad alcuni demo che la casa discografica gli propose di cantare egli stesso, invece che di limitarsi a produrre canzoni per altri.
Barry White con Vittorio Salvetti, in Italia, alla fine degli anni '70
Tra i suoi successi si segnalano, I'm Gonna Love You Just a Little More Baby (1973), Never, Never Gonna Give You Up (1973), Can't Get Enough of Your Love, Babe (1974), You're the First, the Last, My Everything (1974), What Am I Gonna Do With You (1975), Let the Music Play (1976), You see the trouble with me (1976Your Sweetness is My Weakness (1978), Just the Way You Are (1978), Change(1982), Sho' You Right (1987) e Practice What You Preach (1994).
Il concerto del 1998, live nel Central Park di New York con Luciano Pavarotti, è stato il secondo evento musicale visto da più di un miliardo di persone in mondovisione (il primo evento musicale trasmesso in mondovisione e visto da ben 1 miliardo e mezzo di persone fu l'Aloha from Hawaii di Elvis Presley del 1973).
Cronicamente iperteso per diverso tempo, anche a causa della sua notevole mole, subisce un blocco renale nell'autunno del 2002 ed un infarto nel 2003 che lo costringe a ritirarsi dalle scene. Muore all'età di 58 anni il 4 luglio 2003 per un altro blocco renale presso il Cedars-Sinai Medical Center di West Hollywood. Il suo peso corporeo, che a seconda delle diete che seguiva oscillava sempre tra i 120 ed i 150 chili, negli ultimi mesi di vita era salito a ben 160.
Barry White era stato anche uno dei doppiatori di Coonskin, cartone animato diretto da Ralph Bakshi.
Una sua autobiografia, Barry White: Love Unlimited, è stata scritta insieme a Marc Eliot e pubblicata nel 1999.
Barry White appare come guest star nell'episodio 18 della quarta stagione de I Simpson, intitolato "La festa delle mazzate", dove il cantante, anche grazie all'aiuto di Bart e Lisa, riesce, usando i toni bassi della sua voce, a salvare i serpenti della città di Springfield dal massacro da parte degli abitanti. Appare anche nella serie Ally McBeal (puntata 2x18) cantando You're the First, the Last, My Everything per il compleanno di uno dei soci dello studio, John Cage, e compare nuovamente nell'ultima puntata di chiusura della serie, nei saluti di addio, assieme a tutti i personaggi principali.

IL CAVALIERE OSCURO il ritorno la recensione di Aliasmike

ATTENZIONE: la lettura di questa recensione contiene spoiler sull’intera trama del film ed è scritta con l’intento di stimolare una discussione critica con chi il film lo ha già visto. NON LEGGERE se non si vogliono avere anticipazioni.

Premessa
Arriva finalmente anche sui nostri schermi (nel resto del mondo è uscito il 20 luglio), il lungamente atteso capitolo conclusivo della saga di Batman diretta da Chris Nolan.
Il film si portava dietro un’eredità pesante, quella de “Il Cavaliere Oscuro” che, in parte per il magistrale lavoro di Nolan e Goyer e in parte per la grande performance del compianto Heath Ledger, è entrato di diritto nella storia del cinecomic e del cinema in generale, mostrando al mondo che è possibile fare film di supereroi che siano profondi e attuali.
Come ogni finale che si rispetti, anche questo “Il Cavaliere Oscuro – Il Ritorno” è chiamato a tirare le fila del discorso, riprendendo le trame lasciate in sospeso nei capitoli precedenti (molto difficile, se non impossibile, seguirne la trama come film stand-alone): poco azzeccato in tal senso il titolo originale “The Dark Knight Rises”, richiamo esplicito al film precedente (ancora più infelice la scelta italiana, forse atta a riecheggiare “Batman: il Ritorno” di Tim Burton, dove tra l’altro faceva la sua prima comparsa cinematografica la sensuale Catwoman, al tempo interpretata da Michelle Pfeifer), quando col dipanarsi della vicenda diventa sempre più chiaro quanto questo film abbia un legame molto più forte col capostipite della saga “Batman Begins”, rispetto che col suo successore.
Le Critiche
Iniziamo subito dicendo che questo “Ritorno” è un film riuscito solo a metà: è chiara l’aspirazione ad elevare l’epicità del racconto al massimo livello, narrando la rinascita di un eroe distrutto nel corpo e nello spirito e portando alle estreme conseguenze il tema del caos e dell’anarchia, filo conduttore dell’intera trilogia. La trama appare però fin troppo strumentale e addomesticata alle esigenze del regista.
Il film finisce pertanto per diventare un’allegoria, a tratti troppo simbolica e caricaturale per poter rispondere a quei criteri di credibilità ai quali Nolan si è affidato per contraddistinguere il suo lavoro dal resto del panorama dei cinecomics.
Intendiamoci: The Dark Knight Rises resta un’esperienza di livello ben più elevato rispetto ai vari “The Amazing Spider-Man” o “Lanterna Verde” (giusto per citarne uno per parte nell’eterna rivalità Marvel-DC Comics), ma il contorto procedere della trama rivela falle inaspettate e talvolta troppo ovvie per poter essere ignorate: può starci che Bane non uccida Batman e che lo rinchiuda in un posto dal quale sembri impossibile evadere (per quanto in realtà una via di fuga esista), mettendogli davanti un televisore dal quale seguire la disfatta e la distruzione di Gotham, ma dovrebbe perlomeno preoccuparsi di averlo definitivamente messo fuori gioco (spezzandogli la schiena, come nel fumetto, ad esempio), invece di lasciarlo in un luogo dove peraltro gli viene data una mano a rimettersi in sesto.
La stessa ubicazione di questa prigione (che sembrerebbe comunque trovarsi in una località esotica) e gli spostamenti da Gotham a lì non sono chiari: dopo aver catturato Bruce Wayne, Bane riesce a trasferirlo nel carcere nel tempo necessario affinché si risvegli e Wayne stesso, dopo essere evaso non sembra avere grosse difficoltà a tornare a Gotham (resta peraltro da capire come sia riuscito a farlo, dato che la maggior parte dei ponti erano stati distrutti e quelli ancora in piedi erano presidiati dalle forze armate).
Appare anche abbastanza comodo che la Wayne Enterprises abbia costruito una fonte di energia che in tre minuti può essere tramutata in una bomba atomica e che al contempo il reparto scienze applicate (peraltro chiuso da anni) abbia sfornato un mezzo volante appena in tempo per permettere al buon Batman di portare la stessa bomba lontano dalla città, in un epilogo, diciamocelo, piuttosto scontato.
Altra pecca è quella di aver disseminato nel corso di film molti indizi piuttosto evidenti di quello che dovrebbe essere il colpo di scena finale, ovvero la vera identità di Miranda Tate, nuovo presidente della Wayne Enterprises che si scoprirà essere niente popo di meno che la figlia del potente Ras Al Ghul. Nell’ordine ci vengono date le seguenti informazioni:
- Bane porta la maschera a causa di un’aggressione subita nel carcere;
- un bambino, molto probabilmente Bane, è l’unica persona che è riuscita a fuggire dal carcere (ma quando ci viene mostrata la scena il bambino non ha una maschera sul viso);
- il bambino fuggito è il figlio di Ras Al Ghul;
- durante la scena di sesso tra Bruce e Miranda notiamo che lei ha una cicatrice a forma di triangolo, segno di appartenenza alla Setta delle Ombre, ma il buon Wayne, sarà per la vecchiaia o perché al momento è in altro impegnato, non nota il particolare;
- ad un certo punto, durante il caos seguito all’insediamento di Bane a Gotham, l’uomo dice ai suoi scagnozzi di portarla da lui.
Anche senza conoscere la storia fumettistica di Batman (Nolan ha più volte dimostrato di seguirla solo quando può tornare utile alla storia che lui vuole narrare), non ci voleva certo molto a fare due più due e ad identificare il misterioso collaboratore di Bane.
Ci sarebbero poi da menzionare scelte discutibili come il fatto che John Blake avesse capito la vera identità di Batman da un semplice sguardo dato all’uomo in orfanotrofio, ma preferisco dedicare le ultime righe di critica all’orrendo doppiaggio italiano del film. Se ormai ci eravamo abituati a Santamaria come Wayne/Batman, la scelta di Filippo Timi per Bane e il suo approccio al personaggio sono intollerabili ed irritanti: negli USA si lamentavano che la pronuncia di Hardy attraverso la maschera fosse poco comprensibile e in italiano parla con un megafono. Consiglio a tutti una visione in lingua originale e alla Warner un ridoppiaggio per l’edizione home video.
I Temi
Finora le critiche, ma come già detto “Il Cavaliere Oscuro – Il Ritorno” rimane un’ottima pellicola ed i pregi sono innumerevoli.
Il film ha vari livelli di lettura: per quanto il film possa a prima vista sembrare politico (con riferimenti alla rivolta sociale e a movimenti come Occupy Wall Street) si tratta principalmente di una storia di amore e redenzione, veri motori scatenanti di tutte le vicende.
Da una parte abbiamo l’amore fraterno tra Bane e Talia, quello filiale e rabbiosamente vendicativo di Talia per il padre Ras e quello falso e manipolatore ancora una volta di Talia per Bruce (Miranda/Talia è inevitabilmente uno dei personaggi centrali, nonostante il poco spazio concessole).
Dall’altra la voglia di cancellare il passato per cominciare una vita nuova: è questa la principale motivazione che spinge nella mischia Selina Kyle, ma torna anche nelle scelte di Bruce Wayne, che al termine del film inscena la sua morte per potersi costruire una vita nuova. Seppur con un’accezione diversa è questo anche l’intento della setta delle Ombre: la purificazione attraverso la distruzione, l’espiazione delle colpe di una società che non può più sussistere.
Abbiamo poi il tema della rinascita, che trova una doppia allegoria nella prigione dalla quale Wayne dovrà evadere: da una parte la scalata dell’alto pozzo, unica via di fuga, è un simbolo della “resurrezione” dell’eroe, che torna a nuova vita, mentre dall’altra, l’analogia con il pozzo di casa Wayne, nel quale Bruce era caduto da piccolo entrando per la prima volta in contatto coi pipistrelli, è un segno di un ritorno alle origini, alle motivazioni che lo avevano portato a diventare Batman.
E’ poi interessante andare a rianalizzare l’intera trilogia alla luce di questo capitolo finale: come già detto uno dei temi principali portati avanti da Nolan nei tre film riguarda il comportamento della nostra società di fronte a forze distruttive atte a minarne la stabilità dall’interno.
In Batman Begins entravamo in contatto con un mondo corrotto, nel quale la criminalità era all’ordine del giorno: prima ancora dello Spaventapasseri e di Ras Al Ghul era l’accettazione del degrado morale il vero antagonista contro il quale Batman e Gordon si dovevano battere.
Ne “Il Cavaliere Oscuro” Nolan alza il tiro mostrandoci una Gotham che, tornata a credere nel valore della legalità, si ritrova ad affrontare la quintessenza dell’anarchia: Joker è un uomo folle e senza regole, determinato a distruggere la società dalle fondamenta, minandone i principi di civiltà. E se da una parte si scontra contro una città dal ritrovato onore e che rifiuta di abbrutirsi a costo della vita (emblematica la scena dell’evacuazione della città, quando Joker fa imbottire due traghetti, uno di civili ed uno di prigionieri, di esplosivo, recapitando a ciascuno il detonatore dell’altro e promettendo la libertà a chi farà detonare per prima la bomba), dall’altra va così vicino a raggiungere il suo intento, traviando Harvey Dent, l’uomo della speranza, e trasformandolo nel simbolo della disfatta di Gotham, da costringere Gordon e Batman a raccontare una menzogna per evitare il disastro.
In questo terzo film Gotham è una città finalmente sana e libera dalla criminalità. L’avvento di Bane giunge quindi forte ed inatteso: prima isola la città dal resto del mondo, poi mina la credibilità delle forze dell’ordine, rivelando la verità su Dent e infine da il potere al popolo e si mette apparentemente in disparte, osservando con distacco la civilizzata Gotham avvolgersi su se stessa, in attesa della sua inevitabile fine.
E’ interessante notare quanto Joker e Bane, i due villain più rappresentativi della saga, siano diversi uno dall’altro, contrapposti praticamente sotto ogni punto di vista:
- il Joker di Ledger è uno psicotico mingherlino e masochista, facile da piegare in uno scontro, mentre Bane al contrario è un combattente possente e apparentemente imbattibile;
- se per Joker il caos e l’anarchia sono le uniche regole della vita, per Bane sono solo strumenti per giungere ad un fine diverso: la purificazione;
- tanto Joker è impulsivo e spesso reagisce semplicemente agli eventi che lo circondano, tanto Bane è freddo e calcolatore ed ogni sua mossa è attentamente studiata;
- Joker è un uomo solo contro il mondo; Bane raduna un intero esercito di fedeli, così dediti al suo ideale da immolarsi per esso;
- Joker rimane un mistero, un personaggio del quale ci vengono date molteplici versioni del suo passato (tutte inequivocabilmente false) e nessun vero indizio di chi veramente sia, mentre alla fine del film Bane è quasi un libro aperto, un uomo mosso da forti ideali, ma soprattutto da un legame indissolubile.
Le conclusioni
Come al solito Nolan sforna un meccanismo ad orologeria troppo bello per non lasciarsi incantare: il film non ha paura di osare e si prende tempi impensabili per ogni altro cineasta alle prese con questo genere o con i colossal in generale.
I personaggi sono come sempre ben definiti e caratterizzati al punto tale da potersi identificare con ciascuno di loro e comprenderne le intenzioni (alla fine del film non c’è un perché fuori posto: è il come che di tanto in tanto è stato lasciato in sospeso o semplicemente omesso…).
Nolan ci mette ancora più in contatto con personaggi che conosciamo ormai bene, come Alfred e Bruce, il quale rapporto prende una piega inaspettata, ci mostra con Bane e Talia come non sempre il male è generato da altro male e ci regala una Catwoman credibile al punto tale da non avere bisogno del suo “nome da battaglia”: è semplicemente Selina Kyle, abile ladra esperta nel raggiro e nel ricatto ed abituata a vivere di espedienti e che d’improvviso si ritrova a fare i conti con una situazione più grande di lei, decidendo, per una volta, di pensare agli altri prima che a se stessa.
Ottimi tutti i nuovi innesti, da Marillion Cotillard a Tom Hardy, da Anne Hathaway a Joseph Gordon-Levitt (tre su quattro già con Nolan in Inception).
Bello anche il finale che però lascia molti più ponti aperti di quanto non fosse previsto: Bruce Wayne inscena la propria morte e scappa in Italia con Selina, Gotham erige un monumento in memoria di Batman e si prepara a compiangerlo, mentre nei sotterranei della villa Wayne, John Blake si prepara a prendene l’eredità. In una delle ultime scene scopriamo che quello che usa non è nemmeno il suo vero nome: in realtà si chiama Robin…

mercoledì 22 agosto 2012

Cinquanta sfumature di niente

Prendete tre argomenti che appassionano in ogni periodo dell’anno ma in estate, complice il clima torrido e il tempo libero, attirano di più: il sesso, la donna e lo scandalo. Aggiungete un fenomeno editoriale da trenta milioni di copie vendute nel mondo. Condite con un po’ di torbido dato dal tema alla base del suddetto fenomeno, e cioè una relazione sadomaso. Aggiustate con qualche goccia di immancabile retorica senonoraquandista e neolibertinista: et voilà, ecco a voi la recentissima polemica scatenatasi in questi giorni, tutta interna alla Mondadori, che pubblica il best seller del momento, “Cinquanta sfumature di grigio” dell’inglese E.L. James, ed ospita gli scambi al calor bianco di tre direttori di sue testate che battibeccano a suon di editoriali. Il casus belli è stata la copertina del settimanale Panorama, voluta dal direttore Mulè, che partendo dal successo del libro inneggiava alla nuova donna “libera, sottomessa e felice”, copertina che ha indignato (lo sport del momento) le direttrici di Donna Moderna e Grazia. Richiami alle purtroppo incessanti notizie di donne uccise per non essersi volute sottomettere, richiami all’evoluzione del ruolo della donna per affrancarsi dal dominio del maschio, richiami alla dignità ed al rispetto della donna. Mulè si difende sbandierando l’arma finale di ogni querelle: la libertà. Libertà anche di sottomettersi e trarre piacere da questa condizione. Perché solo così si è veramente emancipate. E se questo è un trend mondiale, i giornalisti devono testimoniarlo ed indagare.
Come al solito, trattasi di polemica all’italiana, con un occhio alle tirature sia del libro che delle riviste. La pratica del BDSM, se consapevole e voluta, è una delle tante forme dell’erotismo, e come tale non condannabile di per sé, a meno di non volerla giudicare con delle categorie altre, quali il ruolo della donna nella società, il maschilismo opprimente, la violenza e la prevaricazione, non applicabili al contesto. Attiene ad una sfera privatissima, non sociale né pubblica, quella dell’espressione della propria sessualità e del gioco erotico. D’altra parte, semplificare il fenomeno ascrivendolo ad una generalizzata voglia delle donne di essere sottomesse a tutte le latitudini è un altro errore di prospettiva. In realtà, nessuno di chi scrive pare sapere davvero che cosa sia il vero BDSM, se non per stereotipi e rappresentazioni feticiste di un immaginario torbido, viziato da un cattocomunismo di fondo che inficia qualsiasi tentativo di approccio neutrale.
Che a scatenare tale tempesta di cervelli e levata di scudi sia stato un libro povero e imbarazzante come “Cinquanta sfumature di grigio”, è poi sintomatico. Ho provato, giuro, a leggerlo, e prima di lui ho dovuto leggere (per dovere professionale) alcuni romanzetti della collana Passion di Harmony, dedicata alle storie “intrise di sensualità e tentazioni”. Non ho notato una grande differenza tra questi libri da largo consumo distribuiti nelle edicole, e il pompatissimo romanzo disponibile in libreria, e per le più pudiche fruibile discretamente in formato ebook. Linguaggio misero, descrizioni esasperanti di sguardi e sensazioni postadolescenziali, erotismo edulcorato in forma di Bignami ad usum delphini, dove il riferimento è la casalinga americana non metropolitana, frustrata e repressa, lontana anni luce da quella tanto sbandierata spregiudicatezza dei protagonisti del libro. E’ una Liala pruriginosa, una storia d’amore e di frustini per frustrate, meno eccitante di un Palio di Siena. E’ un’operazione di marketing editoriale, come prima di questo la saga di Twilight (cui l’autrice è esplicitamente debitrice, essendo il libro nato da un forum di fan dei vampiri bellibelli in modo assurdo) e i pariolini di Moccia, un fenomeno rappresentativo dell’archetipo di una relazione sessuale e sentimentale nell’epoca contemporanea, dove la donna accetta di essere femmina ma non viene davvero umiliata e mantiene la sua purezza di fondo abbandonandosi al piacere dell’abbandono totale, e l’uomo è virile, geloso e possessivo ma è anche generoso, protettivo e alla fine si converte all’amore romantico. Una favola. Irreale. Rassicurante. Niente a che vedere con la vera sensualità e l’erotismo drammatico e disperato di una Justine di de Sade, o di Histoire d’O, o dei romanzi di Anaïs Nin o di Henry Miller. E’ una curiosità maliziosa, un “vorrei ma non posso e se anche potessi non lo farei” che niente ha a che vedere col vero sesso spregiudicato. Il vero esercizio sadomasochista, credetemi, è leggerlo tutto.
di ANGELA CUTRERA

SEX ON THE BEACH

 Il Sex On The Beach è stato creato sicuramente dopo gli anni Settanta, visto che fino a quel momento nessun cocktail poteva contenere la parola sex, in quanto ritenuto sconveniente nei locali statunitensi. Quindi nacquero dapprima il Fun on the beach e poi il Peach on the beach, quest’ultimo composto da 2 cl di vodka, 2 cl di midori, 2 cl di chambord, succo di ananas e di mirtillo rosso, che avevano l’effetto di scurire enormemente il cocktail e donargli un gusto molto dolce. Il Peach on the beach non ebbe successo in Europa, vista la difficile reperibilità del Midori, e fu il Fun on the beach ad affermarsi decisamente nel vecchio continente.

Il cocktail venne poi approvato dall’IBA e inserito nella lista dei cocktails famosi. Oggi vi sono alcune varianti, come il “Modern Sex on the Beach”, dove il succo d’arancia viene sostituito dal succo di ananas.

Cocktail molto preferito dal sesso femminile. 

martedì 21 agosto 2012

MOYTO STORIA E MITO

“Mojito” storia e mito

Molto profumato e leggermente dolce, con un tocco di acidità, questo elegante e cosmopolita cocktail, si è fatto posto tra i grandi classici ed oggi è il più famoso cocktail. Alcune varianti sono realizzate con limone giallo o acqua gassata e pezzi di lime sul fondo del bicchiere pestati insieme alla menta, altri con ghiaccio tritato. Ad alcuni piace aggiungere qualche goccia di Angostura per esaltarne il sapore. Anche a Parma abbiamo molte varianti che sono arrivate, il” Fidel” con aggiunta di birra,”Parisienne” con aggiunta di champagne, e quella che oserei dire tipica parmigiana che è con due tipi di rhum lime pestato, menta e zucchero di canna (grezzo) quasi un minestrone manca solo il parmigiano.

L’origine del Mojito parte da questo signore Francis Drake, noto come “El Draque” (il drago), che era un famoso pirata inglese (il primo uomo inglese a circumnavigare il mondo) ed è stato un punto di riferimento situato a ”La Isla”, la “Isla de la Juventud” a Cuba. Sedotto da questo paesaggio naturale è rimasto vuoto e silenzioso. La stessa isola nel Mar dei Caraibi che ha ispirato Robert Louis Stevenson a scrivere “L’isola del tesoro”.

Francis Drake, durante il suo tour mondiale nel saccheggio del 1578, fece una sosta in una taverna con il suo equipaggio per celebrare il loro bottino . Ebbero ad abbeverarsi, foglie di menta schiacciate con lo spirito locale (che era il precursore delle attuali rum cubano non filtrato) e del limone verde (lime) ghiaccio a scaglie grosse. Bevvero l’antenato del rustico e virile Mojito che chiamarono il “Draque” (soprannome del famoso pirata che è stato anche ammiraglio e il capitano di equipaggio). La ricetta è rimasta la “Isla” e ha continuato ad essere consumato regolarmente sotto il nome di “Draquecito”.

Molto più tardi, il regno della mafia cubano tra il 1910 e il 1920 ha contribuito perfezionare il rum. Nel 1946 “La Bodeguita del Medio” ha deciso di effettuare una sofisticata variante del “Draquecito” per renderlo più accessibile. Essi aggiungono zucchero di canna e lime. Rivedere i punti di forza di questa ricetta chiamata “Mojito” (amalgama di violare mojadito (umido) e Mojo (salsa cubana culinaria anche “fascino” in Sud Africa). Nomi ben trovati per una bevanda che è attraente e tropicale. Poco dopo, è preparata in tutto il mondo a metà degli anni’20 era diventata la bevanda nazionale di Cuba.

Il Mojito è stato rapidamente esportato verso gli Stati Uniti tra cui Miami, dove ha raggiunto una popolarità enorme, poi a New York e San Francisco. Nel 1990, il Mojito finalmente ha raggiunto l’Europa attraverso l’importazione della cucina Tex-Mex.

PS: Ernest Hemingway amava sorseggiare Mojitos “La Bodeguita del Medio”, ma senza zucchero perché non digerito , Ha cosi dato i natali a Papa Hemingway da lui preparato gustos Maracino (il liquore a base di ciliegie cubano) e succo di pompelmo.

Ricetta originale del Mojito

Tre ramoscelli di menta
Due cucchiaini Zucchero di canna bianco
3.0 cl Succo di un lime
4.0 cl rum
completare con acqua di soda.

Pestare in un bicchiere (highball), lo zucchero il succo di lime e la menta, aggiungere il ghiaccio in cubetti e versare il rum,completare con soda mescolare delicatamente riportando in superficie i gambetti di menta e servire con cannucce .

Buon Mojito a tutti.

Vito Schiavo

lunedì 20 agosto 2012

BLOMUR

Ma che fine ha fatto Mattia Mor, uno dei volti più noti al pubblico televisivo, prima ex corteggiatore di “Uomini e Donne” e poi gieffino, che ha fatto cadere ai suoi piedi Diletta Franceschetti, nel GF10? Vi basta continuare a leggere questo articolo per scoprirlo…
Mattia Mor, fascinoso genovese di 29 anni, ha intrapreso con grande successo un’attività tutta sua, la Blomor, che si occupa di abbigliamento: il brand sta spopolando tra i giovani che seguono le nuove tendenza della moda, e per tre motivi:

Uno: le magliette di Blomor sono accattivanti e trendy, e riprendono il mondo della notte, con i cocktail (Mojito, Caipirinha, Caipiroska, Cuba Libre) e le sale gioco, e anche quello “solare”, con stampe cool, ispirate, tra l’altro, ai gelati Algida, e poi Smile, Cappuccio e Brioche, Dogsitter, Football.
Due: lo stilista della Blomor ha inventato un qualcosa di veramente originale, immaginandosi una felpa con cappuccio… cappuccio! Ci spieghiamo meglio: al cappuccio della felpa è stato applicato un divertente manico di stoffa, che crea l’illusione di una tazzina da cappuccino, anche perchè l’interno è color caffè! Questa novità, con brevetto depositato, è stata molto apprezzata nelle varie presentazioni del brand (come quella a Palazzo Pitti) e ha subito catturato il favore dei ragazzi.
Tre: forse non ve ne siete accorti, ma le magliette Blomor sono sotto i vostri occhi anche quando guardate la tv! Sì, perchè Matteo Branciamore, nella serie “I Cesaroni”, indossa molto spesso t-shirt e felpe del marchio di Mattia Mor. E non è l’unico testimonial: anche Tullio Tomasino, ex gieffino e grande amico di Mattia, le ama moltissimo, e ha posato per le foto promozionali della collezione primavera estate 2010.

Ma Branciamore non è l’unico testimonial: sono diversi i vip che si sono fatti fotografare con una t-shirt Blomor: da Carlo Verdone ad Asia Argento, e vi basterà andare sul sito per guardare gli scatti!
Mattia Mor, laureato in Economia aziendale alla Bocconi di Milano, non sta fermo un minuto: oltre a portare avanti con successo questa iniziativa, continua a recitare sia in teatro (“Non ci posso fare niente” con Alice Bellagamba) che in tv (lo vedremo presto in “Così fan tutte 2″, al fianco di Alessia Marcuzzi).

DAIQUIRI

Già in voga negli USA ai primi del Novecento, si può bere anche come corroborante e dissetante. Le sue origini vengono fatte risalire al 1898, quando vi fu la guerra tra Stati Uniti e Spagna, dopo l'affondamento della nave Maine, nel porto dell'Avana. Secondo gli storiografi, un marine sbarcò in un piccolo villaggio nei pressi di Santiago di Cuba, precisamente a Daiquiri.

Qui per placare la sete entrò in una baracca che fungeva da mescita. Rifiutandosi di bere rum liscio, lo fece allungare con succo di lime e poi lo corresse ulteriormente con un po' di zucchero. Nacque così il Daiquiri.
Un'altra leggenda riportata da Elfloridita.net, sposta la sua data di nascita pochi anni più tardi, nel 1905, quando alcuni ingegneri americani impegnati nei lavori in una miniera, lo inventarono e gli diedero il nome della spiaggia cubana Daiquiri. Successe che l'ingegnere Pagliuchi visitò una miniera di ferro ad est di Cuba chiamata Daiquiri. Qui fa domande all'ingegnere americano Jennings S. Cox sul funzionamento della miniera per poterne esplorare altre...
Alla fine della giornata, Pagliuchi propose di bere qualcosa. La leggenda narra che Cox aveva a disposizione solo rum, dei lime e dello zucchero. Miscelarono gli ingredienti in uno shaker con ghiaccio e Pagliuchi fece: "Come si chiama questo cocktail?". "Non ha un nome...potrebbe essere un rum sour", rispose Cox. Pagliuchi concluse: "Questo nome non è degno di un cocktail così fine e delizioso come il nostro. Lo chiameremo Daiquiri".
Il Daiquiri è celebre per essere stato uno dei preferiti dallo scrittore Ernest Hemingway, assieme al mojito ("My mojito at La Bodeguita, my daiquiri at El Floridita"), viene anche ripetutamente citato nel film "Il Nostro Agente all'Avana" (1958). Viene citato inoltre in "Improvvisamente l'estate scorsa" (film del 1959, diretto da Joseph L. Mankiewicz) da Kathrine Hepburn che lo offre a Montgomery Clift. Un Daiquiri è uno degli elementi chiave nel giallo Assassinio allo specchio di Guy Hamilton, dal romanzo di Agatha Christie.